Un’inchiesta di Rai News 24 rivela il ruolo del Governo italiano e dell’Eni
Un sospetto che non insospettisce più. Un mistero che si infittisce. Ed ecco che come nei migliori memorandum storici, spunta fuori la verità dei “militi noti”. I soldati italiani, quelli definiti da Ciampi “missionari di pace”, quelli caduti negli attentati, quelli di base a Nasiriya non sono in Iraq per assicurare la pace, per donare la democrazia, per aiutare la gente o per proteggere il patrimonio storico dell’antica Babilonia. E proprio “Antica Babilonia” era il nome della missione supportata dal Governo Berlusconi, che ha visto il contingente tricolore farsi sfoggio dell’interesse umanitario dell’intervento nel Paese mediorientale. Un’inchiesta di Sigfrido Ranucci, inviato di Rai News 24, ha portato alla luce foto, documenti e testimonianze di chi in Iraq sa cosa succede. Ben sei mesi prima dell’inizio conflitto, il Ministero per le Attività Produttive aveva stilato un dossier nel quale si evidenzia la necessità di inviare un imponente numero di soldati proprio nella città di Nassiriya, individuata dal governo come punto strategico per il controllo dei pozzi petroliferi e delle raffinerie. Già a metà degli anni novanta Saddam Hussein fece promessa all’azienda petrolifera italiana Eni di facili concessioni nella città irachena che possiede riserve tra i 2,5 ed i 4 miliardi di barili, in cambio della non belligeranza in caso di attacco Usa. Invece, così non è stato. Appena le truppe americane hanno invaso i territori del dittatore, si è subito conformata la mappa delle stazioni militari e, come si evidenzia dai documenti rinvenuti da Ranucci, Nassiriya è subito stata presa in consegna dagli italiani, che per riconoscenza, hanno assicurato agli Usa il loro intervento militare. Ecco, quindi, che i soldi stanziati dal governo per sostenere la costruzione di un ospedale da campo per la Croce Rossa e le numerose foto diffuse che ritraevano soldati con bambini tra le braccia, sono soltanto una copertura per un’azione ben diversa. La missione a Nassiriya è costata 10 volte più della costruzione dell’ospedale da campo. La base italiana è posizionata in maniera strategica per controllare il maggior oleodotto della città. Il reggimento San Marco, nave della marina, serviva a proteggere gli attacchi da mare. Gli elicotteri ed i pattugliamenti aerei monitoravano possibili azioni di boicottaggio dei pozzi. Insomma, si delinea un quadro che sino ad ora i più scettici avevano rifiutato. L’Italia è coinvolta ed è parte preponderante di un assalto alle riserve petrolifere irachene. Ne controlla alcune zone e la missione di pace di cui si fa vanto è solo un pretesto per zittire l’opinione pubblica. Se poi, a questo, si aggiunge che Saddam aveva concesso la possibilità all’Eni (e quindi al Governo italiano che attualmente gestisce il 30% del capitale dell’azienda) di estrarre petrolio dai sui territori in cambio di “apparecchiature” molto sospette e che non lasciano molti dubbi sul fatto che si trattasse di armi, è davvero giunto il momento in cui, non solo chi si proclama pacifista, ma l’Italia intera deve spingere per il ritiro delle truppe dall’Iraq. Tutti devono chiedere ragguagli sull’esport di armi dall’Italia alle popolazioni in guerra. Perché, il pacifismo non è cosa da pochi, non è lo sfilare con il volto del Che cucito su di un vessillo rosso sangue sovietico e cubano, non è fingersi missionari per creare dipendenza. Pacifismo è combattere la guerra con la pace, con la forza che viene dagli ideali e dall’unione delle persone di qualunque etnia, religione o partito.
Pubblicato su Controcorrente di Maggio 2005
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