Lezione Diritto pubblico comparato prof. Giuseppe Barone
IL PROBLEMA
DEL RAPPORTTO FRA DIRITTO NATURALE E
DIRITTO POSITIVO
La
più antica classificazione del diritto ( e forse anche la più densa di profili
critici) è quella che da sempre vede contrapposti il diritto naturale al
diritto positivo.
Per diritto naturale si
intende quell’insieme di precetti, di norme, che, per usare un’espressione
particolare, “ sta scritto nel cuore degli uomini”; uno statuto
giuridico, cioè, che, a prescindere dalla sua formulazione espressa
nell’ordinamento, la collettività dei consociati sente indubitabilmente
proprio.
Storicamente il diritto
alla vita, alla libertà ed alla proprietà rappresentano il nucleo minimo del
diritto naturale, unitamente al diritto al
nome, all’identità personale e alla famiglia.
Di contro, il diritto
positivo consiste nell’insieme delle norme “vigenti”, di quei precetti, cioè,
che in un dato momento storico rappresentano l’ordinamento giuridico di uno
Stato.
Se da un lato, dunque, la
fonte del diritto positivo è l’Autorità del Potere Pubblico ( lo Stato), il
diritto naturale trova la sua legittimazione in una serie di concezioni
filosofiche e politiche che precedono la fondazione stessa dello Stato.
Per questa ragione il
diritto naturale è canone valutativo del diritto positivo, della sua giustezza,
della sua equità ed, infine, della sua “ legittimità”.
Nello moderno Stato
democratico il diritto positivo è espressione, sebbene indiretta, della volontà
della maggioranza che non sempre, tuttavia è conforme ai canoni del diritto
naturale o della giustizia comunque intesa.
Il rapporto dialettico
fra diritto naturale e diritto positivo è stato sempre presente nella storia
del diritto, ma se si volesse citare un episodio relativamente recente
all’interno del quale tale rapporto è emerso in tutta la sua importanza e
drammaticità si potrebbe fare riferimento al processo di Norimberga.
In quell’occasione la
contrapposizione di cui parliamo fù rappresentata da un lato dalla difesa degli
imputati che reclamò l’innocenza degli stessi per il fatto di avere, questi
ultimi, semplicemente dato seguito ad ordini e norme “ formalmente” legittimi;
dall’altro l’accusa dei rappresentati delle potenze vincitrici replicò
imputando ai gerarchi nazisti la violazione dei principi fondamentali del
diritto naturale, principi che andavano rispettati quali che fossero gli ordini
ricevuti o le disposizioni normative che ad essi si rivolgevano.
L’ordinamento giuridico
della Germania Nazista era formalmente valido ed efficace ma ingiusto ed
illegittimo perché violava i canoni più elementari della convivenza fra gli
uomini, cioè, il diritto naturale.
Ciò detto, è opportuno
ora attardarsi su un’altra riflessione relativa alla presunta immutabilità del
diritto naturale.
Dopo aver fornito più
sopra una sintetica definizione del diritto naturale, dobbiamo chiederci se
esso sia immutabile e quindi rimanga uguale pur nel cambiamento continuo della
società, dei suoi costumi, dei suoi valori e del suo stesso diritto positivo.
Immutabilità del
diritto naturale
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Secondo alcuni
autori il diritto naturale è costituito da una quantità minima di principi che
come tali costituiscono il fondamento soltanto di alcuni diritti fondamentali,
cosiddetti in buona parte di prima generazione.
In questo senso si può
affermare che almeno tendenzialmente il diritto naturale è immutabile, quanto
alle sue affermazioni di principio ( diritto alla vita, al nome, alla
famiglia), ma i principi stessi pur se immutabili, possono riempirsi e
specificarsi a seconda delle epoche storiche.
Si tratterebbe, cioè, di
un “sistema chiuso” di principi talmente fecondo, tuttavia, e ricco di
potenzialità da consentire agli interpreti ( i giuristi ) di ricavare da esso “
corollari” sempre nuovi in grado di adattare il diritto naturale alle nuove
esigenze della società.
Non vi è dubbio, infatti,
che l’evoluzione sociale unitamente al progresso scientifico e tecnico mettono
in evidenza problemi e questioni sempre nuove e di non facile soluzione.
Si pensi, ad esempio,
alle questioni relative alla famiglia di fatto o all’eutanasia o, ancora, a
tutte le problematiche legate alla bioetica quali la fecondazione artificiale,
la famiglia monogamica, ecc..
Si
può, quindi, affermare che la disciplina più specifica dei diritti fondamentali
che promanano dal diritto naturale, pur atteggiandosi in maniera diversa nei
vari momenti storici e nei vari ordinamenti va valutata come coerente e
compatibile con il diritto naturale, il quale, invece, non può dirsi
giustamente “attualizzato” allorché le norme del diritto positivo ne ledono il
contenuto fondamentale.
Emerge, così
ed in definitiva, che il nucleo fondamentale del diritto naturale rappresenta i
c.d. diritti fondamentali di prima generazione; di contro, i corollari che da
esso l’interprete trae per far fronte all’evoluzione sociale costituirebbero i
diritti naturali di seconda e fin’anche di terza generazione.
Questa impostazione,
consente, peraltro, di porre argine ad un fenomeno singolare, quello per il
quale l’elenco dei diritti c.d. fondamentali non avrebbe, di recente, più
limiti e consentirebbe l’immissione al suo interno di qualsiasi, spesso anche
generica, pretesa.
La suddivisione, invece,
fra diritti fondamentali di prima e di seconda generazione consente di non
smarrire la giusta rilevanza da dare al nucleo fondamentale del diritto
naturale, il quale, in conclusione, è l’ancoraggio di alcuni ma non di tutti i
diritti fondamentali.
La connotazione di tale
categoria di diritti consiste nel rappresentare il minimo comune denominatore
attorno al quale si fonda una società; si tratta, cioè, di quei principi che
stanno a fondamento comune della coesistenza umana, sono le clausole
imprescindibili del contratto sociale.
Con ciò non si vuol dire
che non possono definirsi come “fondamentali” altri diritti che saranno meglio
esaminati più avanti quali il diritto alla salute o il diritto allo studio e
poi ancora il diritto all’identità sessuale ecc…In questi casi però la
definizione di tali diritti come fondamentali non si ricollega al diritto
naturale, ma alle nuove basi su cui si regge la società moderna.
Essi sono, quindi
fondamentali per la realizzazione dello sviluppo della persona in consonanza
con i valori e le aspettative della società in un dato momento storico. Ma
sarebbe certo quanto meno eccessivo affermare che il diritto ad una buona
amministrazione abbia la sue basi nel diritto naturale, giacché piuttosto il
riferimento ( il fondamento) di tale diritto si rinviene nel debito che ha lo
Stato verso il cittadino di usare al meglio le risorse che gli provengono
dall’imposizione fiscale.
SEGUE: IL RAPPORTO TRA
DIRITTO NATURALE E COSTITUZIONI
In generale si può
affermare che il diritto è una pretesa che un soggetto vuol far valere nei
confronti di un altro o nei confronti di un bene.
Per ciò che attiene i
diritti naturali e quelli fondamentali
in particolare vi è da dire che essi storicamente si sono affermati nel corso
della lunga evoluzione del rapporto fra Autorità e Libertà, cioè, fra i singoli
(più tardi cittadini) ed il Potere Pubblico.
Il percorso, infatti,
dallo Stato feudale, attraverso l’assolutismo, fino alle moderne democrazie è
caratterizzato dal progressivo “riconoscimento” dei diritti naturali dell’uomo
e del cittadino.
La stessa fase del c.d.
Costituzionalismo si contraddistingue per la richiesta da parte dei movimenti
nazionali di carte costituzionali che arginassero il potere ab – solutus (
sciolto da ogni vincolo) dei monarchi così che il monarca ed il suo governo
fossero soggetti alla legge e non potessero violare alcuni diritti fondamentali
riconosciuti dalla Cost. stessa.
Oggi, tutte le
costituzioni delle più avanzate democrazie “ riconoscono” i diritti
fondamentali dei cittadini.
Nell’uso
del verbo “ riconoscere” si conferma l’implicita ammissione di diritti che
preesistono alla costituzione stessa dell’ordinamento.
Riconoscimento dei diritti
nell’art. 2 della Costituzione
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Tra di esse la Costituzione Italiana, la quale
all’art. 2 cosi recita: “La Repubblica riconosce e garantisce i diritti
inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nella formazioni sociali ove si
svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili
di solidarietà politica, economica e sociale.”
Così che può affermarsi
che i diritti inviolabili dell’uomo esistono già prima della costituzione della
Res – Pubblica (cioè del complesso dei soggetti pubblici e privati che agiscono
nell’ordinamento), e l’Autorità si limita, per così dire, al loro
riconoscimento e non già alla loro creazione; il che equivale ad affermare che
lo statuto giuridico dell’individuo con
il suo carico di autonomia, libertà, uguaglianza e dignità è meritevole di
tutela indipendentemente e nonostante la volontà del Potere Pubblico, che può
stabilire la misura di quella tutela nei limiti in cui non ne intacchi il
nucleo fondamentale.
Emerge, inoltre, che,
almeno in prima battuta, l’inviolabilità del diritto si pone nei confronti
della Repubblica o altrimenti detto nei confronti dell’Autorità; il contro
altare del diritto fondamentale è, quindi, il soggetto che detiene il potere,
cioè, colui che ha gli strumenti coattivi per far valere le proprie pretese.
Si vede, allora, come
attraverso la nostra Costituzione si possa individuare il percorso storico
sopra richiamato.
A
ciò si aggiunga che la Costituzione tutela l’uomo non solo nella sua
individualità, ma, altresì, nelle formazioni sociali in cui si estrinseca la
sua personalità ( famiglia, partiti politici, confessioni religiose ecc).
Si pone a
questo punto la domanda se i diritti inviolabili, di cui si parla nell’art.2
della Costituzione siano solo quelli elencati nella Costituzione stessa o se
l’espressione ricomprenda ulteriori diritti oltre quelli elencati nel testo
stesso.
In verità si è ritenuto –
e a ragione – che l’art.2, nel fare riferimento ai diritti inviolabili
dell’uomo, abbia inteso riferirsi non già solo a quelli espressamente elencati
negli articoli seguenti ma a tutti i diritti che la coscienza sociale e le
indicazioni stesse dell’ordinamento inducono a ritenere meritevole
dell’aggettivo inviolabili, tali cioè che si contrappongono all’emanazione di
qualunque atto autoritativo ( leggi, provvedimenti, sentenze) che tendesse ad
intaccarne il nucleo fondamentale.
L’art. 2 della
Costituzione, dunque, depone per l’esistenza di diritti inviolabili ulteriori
rispetto a quelli individuati nella Costituzione; esso cioè può considerarsi un
catalogo aperto all’ingresso di nuove situazioni soggettive, che, in forza
dell’ingresso stesso, acquistano la qualifica di inviolabili.
L’art.2 della
Costituzione, dunque, è una norma di chiusura che funge da garanzia
costituzionale per i nuovi diritti che emergono dall’evoluzione della società.
Il catalogo di cui
parliamo è stato poi ampliato dalla Corte Costituzionale Italiana e dallo
stesso legislatore che hanno, in più occasioni, fornito così tutela legislativa
e costituzionale ad un non limitato numero di pretese.
Si pensi a titolo
d’esempio, da un lato all’introduzione del diritto all’identità sessuale (
legge 164/82), e dall’altro al riconoscimento del diritto all’abitazione come
diritto inviolabile ( Corte Cost. sent. N. 559/89), al diritto del minore ad
essere inserito in una famiglia ( corte cost. sent. 183/1988), al diritto degli
inabili all’accompagnamento ( corte cost. sent. 346/1989), al diritto alla
privacy ( corte cost. sent. 139/1990), al diritto ad abbandonare il proprio
paese ( corte cost. sent. 278/92).
Vi è da aggiungere, a
quanto sin qui detto, che il riconoscimento dei diritti inviolabili a livello
costituzionale comporta l’illegittimità di qualsiasi legge che violasse i
predetti diritti di tal che anche il potere supremo ( il legislatore) è
vincolato.
In una prospettiva
comparatista risulta interessante, ora, dare uno sguardo al contenuto di alcune
Costituzioni dei Paesi occidentali al fine di verificare l’esistenza nella
carte fondamentali del richiamo al diritto naturale e/o ai diritti fondamentali
dell’uomo.
Cominciamo della
Costituzione Francese e dell’annessa Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del
cittadino del 1789.
La Costituzione
d’oltralpe all’art 2 della predetta Dichiarazione recita che: “Il fine di
ogni associazione politica è la conservazione dei diritti naturali ed
imprescrittibili dell’uomo. Questi diritti sono la libertà, la proprietà, la
sicurezza e la resistenza all’oppressione”.
L’art.
1 della Costituzione della Repubblica Federale Tedesca ( Grundgesetz)
è espressamente dedicato ai diritti fondamentali: “La dignità dell’uomo è
intangibile. E’ dovere di ogni potere statale rispettarla e proteggerla. Il
popolo tedesco riconosce quindi gli inviolabili ed inalienabili diritti
dell’uomo come fondamento di ogni comunità umana, della pace e della giustizia
nel mondo. I seguenti diritti fondamentali
vincolano la legislazione, il potere esecutivo e la giurisdizione come
diritto immediatamente valido”.
Nella Costituzione del
Regno di Spagna il Titolo I, rubricato “ diritti e doveri fondamentali”, contiene
l’art. 10 che così dispone: “La dignità
della persona, i diritti inviolabili ad essa inerenti, il libero sviluppo della
personalità, il rispetto della legge e dei diritti altrui sono il fondamento
dell’ordine politico e della pace sociale. Le norme relative ai diritti
fondamentali e alle libertà che la Costituzione riconosce si dovranno
interpretare secondo la Dichiarazione Universale
dei diritti dell’uomo ei trattati ed accordi internazionali che in materia
abbia ratificato la Spagna”
Si conferma, dunque, che
anche altri ordinamenti richiamano espressamente l’esistenza dei diritti
naturali e dei diritti fondamentali, diritti, gli uni e gli altri che
preesistono alla costituzione dello Stato e che sono da questo tutelati.
DALLO STATO LIBERALE ALLO
STATO SOCIALE: DAI DIRITTI DI LIBERTA’ AI
DIRITTI POLITICI E SOCIALI
Il rapporto fra potere
Pubblico ed cittadino può articolarsi secondo diversi paradigmi ognuno dei
quali individua differenti ruoli e funzioni dell’uno ed altrettante diverse
pretese dell’altro.
Storicamente il primo
archetipo di rapporti si è fondato sullo svolgimento da parte dello Stato di un
limitato numero di funzioni alle quali corrispondevano i più ampi margini di
libertà per il cittadino; lo Stato liberale, infatti, ha avuto il compito di
svolgere le mansioni fondamentali che assicurassero il mantenimento della
convivenza sociale e nulla di più.
Fra questi compiti
rientrano l’amministrazione della giustizia, il governo della moneta, la
politica estera ed il mantenimento dell’ordine interno per il tramite della
funzione di polizia.
Tutto il resto, nella
concezione dello Stato liberale, è lasciato al libero gioco del mercato,
all’incontro, cioè, delle volontà dei singoli i quali, dunque, chiedono allo
Stato semplicemente di astenersi dall’interferire nelle attività private.
Vi è da dire che questo
schema teorico non si è mai calato nei termini predetti nell’ambito
dell’ordinamento, giacché non era neppure interesse della classe borghese
dominante che tutto restasse affidato al libero gioco del mercato, cioè
all’incontro della domanda e dell’offerta.
La borghesia liberale
richiedeva – seppur in maniera limitata – che lo Stato assumesse su di se
alcuni compiti ulteriori rispetto a quelli prima elencati, compiti ulteriori il
cui assorbimento risultava utile al mercato cioè al commercio ed agli scambi.
Basterà ricordare tutto
il settore dei lavori pubblici e più esattamente il sistema viario e dei
trasporti che restava nella mani dello Stato.
Mai quella borghesia
pensò di fare le strade a proprie spese e men che mai i porti o le nascenti
ferrovie.
Coerentemente con l’idea
che si aveva dei compiti dello Stato, nell’ordinamento liberale trovavano ampio
spazio i diritti di libertà ovvero i diritti civili e, ad una certa distanza da
essi, i diritti politici. Scarso rilievo avevano, invece, i diritti sociali.
I diritti di libertà si
distinguevano e si distinguono per il loro contenuto “negativo”. Si intende
dire che la pretesa che il titolare di un diritto civile di libertà faceva
valere ( e fa valere oggi) nei confronti del potere pubblico era nel senso che
quest’ultimo si astenesse dall’interferire con il diritto stesso di libertà.
Meno
interventi faceva ( e fa ) lo Stato più il diritto di libertà trovava ( e
trova) la sua celebrazione, in quanto il titolare del diritto lo utilizzava e
ne godeva nei modi che riteneva ( e ritiene ) più opportuni.
Allo Stato
liberale, dunque, corrispondono i diritti di libertà, a contenuto
prevalentemente negativo. Ciò vuol dire che la loro soddisfazione si realizza
in forza dell’astensione del potere pubblico da ogni intervento e la cui tutela
rientra, invece, fra i compiti dello Stato ( amministrazione della giustizia).
I diritti di libertà sono
facilmente giustiziabili atteso che la cessazione della loro violazione
consiste nell’interruzione della condotta interferente o limitativa dello
Stato, interruzione che viene ordinata dal giudice adito.
A partire dalla fine
della prima guerra mondiale, invece, le pretese dei cittadini rivolte
all’indirizzo dello Stato sono cresciute sino ad assumere dimensioni veramente
considerevoli.
Al potere pubblico, cioè,
non è stato più chiesto di astenersi dall’intervenire nell’ordinario
svolgimento della vita sociale, ma, all’opposto, è stato demandato di fornire
al cittadino una variegata quantità di prestazioni.
Allo Stato erogatore di bene e servizi, lo
Stato sociale o Welfare State, corrispondono i diritti sociali, diritti a
contenuto pretensivo il cui nucleo fondamentale è rappresentato da una
richiesta del cittadino allo Stato a che quest’ultimo soddisfi i suoi bisogni.
Se i diritti civili di
libertà, dunque, sono diritti a porre in essere le più diverse condotte da
parte dei privati, i diritti sociali sono, invece, diritti ad ottenere beni e
servizi dallo Stato.
Occorre specificare,
tuttavia, che i diritti sociali si reggono sul principio di solidarietà in
forza del quale lo Stato opera la redistribuzione della ricchezza. Essi, allora, sono più che mai
soggetti al bilanciamento con le disponibilità finanziarie e con i limiti
dell’organizzazione pubblica.
Per il tramite della
tassazione ( necessariamente elevata in tutti gli Stati sociali) il potere
pubblico, infatti, sia esso centrale o locale, appronta l’insieme delle
strutture e degli apparati necessari alla fornitura dei beni ed all’erogazione
dei servizi ai cittadini.
E’ evidente, dunque, che
il problema dello Stato sociale si risolve, almeno in prima battuta, nel
problema della qualità dei servizi che esso eroga alla collettività, atteso che
la legittimazione sociale dello stesso passa attraverso la più ampia ed
efficiente soddisfazione dei bisogni individuali.
Ciò, inoltre, refluisce
sulla giustiziabilità dei diritti sociali atteso che, diversamente da quanto
accade per i diritti di libertà negative, è difficile per il giudice assicurare
la soddisfazione dell’interesse pretensivo vantato dal singolo, interesse che
per essere tutelato necessità dell’approntamento di mezzi e strutture
pubbliche..
Si è detto che lo Stato
sociale ed i corrispondenti diritti si reggono sul principio di solidarietà fra
i cittadini; tale principio è costituzionalmente sancito nella nostra Carta
fondamentale all’art. 2 dove si legge che “ La Repubblica…….richiede
l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica
e sociale.”
Sembrerebbe, dunque, che
lo Stato Italiano non possa che essere uno Stato sociale attesa
l’inderogabilità dei doveri di solidarietà economica e sociale.
Tale conclusione è,
peraltro, avvalorata dal fatto che la Costituzione attribuisce ai cittadini
numerosi diritti pretensivi quali il diritto al lavoro, alla salute,
all’istruzione, imponendo, dunque, alla Repubblica di adoperarsi per “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che,
limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il
pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i
lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.
Non si può omettere,
tuttavia, di riflettere sull’eccessiva inflazione delle pretese rivolte
all’indirizzo dello Stato da parte dei
cittadini e sulla conseguente perdita di reale significato dei diritti sociali;
sembrerebbe addirittura, ormai, difficile trovare un bisogno del cittadino di
fronte al quale lo Stato resti indifferente.
Dal dovere dello Stato ad
erogare quanti più servizi per la soddisfazione dei cittadini discende il
correlativo diritto alla buona amministrazione; si tratta di un diritto
fondamentale che si sostanzia in un impiego corretto e utile delle risorse
finanziarie (di recente, infatti, come specificazione del diritto alla buona
amministrazione si è parlato di un diritto fondamentale al controllo dell’uso
delle risorse finanziarie, che in Italia è soprattutto esercitato dalla Corte
dei Conti).
Il rapporto Autorità – Libertà,
tradizionalmente caratterizzato dalla preminenza della Amministrazione
Pubblica, ha subito, negli ultimi anni, un riequilibrio a favore del cittadino
consentendogli di attivare un ampio catalogo di pretese a tutela dei propri
interessi e degli standars qualitativi dei servizi erogati dal Potere Pubblico.
La
manifestazione tipica dell’azione amministrativa, cioè, il provvedimento
autoritativo non è più, dunque, frutto dell’esclusiva determinazione
dell’Amministrazione, bensì l’esito di un procedimento caratterizzato
dall’accentuata dialettica fra il Potere Pubblico ed il cittadino.
Per ciò che attiene, in conclusione, i diritti
politici vi è da dire che essi consistono nell’insieme di quelle facoltà che
consentono al cittadino di partecipare, tanto direttamente quanto
indirettamente, all’adozione delle scelte collettive e di governo.
Si pensi al diritto di
elettorato attivo e passivo, al
diritto di associarsi liberamente in associazioni e partiti politici, ed
al diritto di accedere agli uffici pubblici ed alle cariche elettive.
Vi è da dire, inoltre,
che i diritti politici partecipano della natura dei diritti sociali attesa la
necessità che anche per l’esercizio dei primi lo Stato appronti una complessa
struttura organizzativa che ne consenta l’esercizio.
Si pensi, ad esempio, al
diritto di voto ed alla relativa macchina elettorale senza la quale il diritto
si svuoterebbe di significato.